Natale

Di Peregrinus – Per il vero credente, quello tosto, la grande festa è la Pasqua di resurrezione. Si innesta nelle radici ebraiche del Nazareno, è contraria a ogni bennata ragionevolezza, esige il credo quia absurdum. Costò a Paolo gli sberleffi degli ateniesi e oggi, prova sicura della decadenza dei tempi […].

Di Peregrinus – Per il vero credente, quello tosto, la grande festa è la Pasqua di resurrezione. Si innesta nelle radici ebraiche del Nazareno, è contraria a ogni bennata ragionevolezza, esige il credo quia absurdum. Costò a Paolo gli sberleffi degli ateniesi e oggi, prova sicura della decadenza dei tempi, gli costerebbe quelli di Odifreddi o di Maurizio Ferraris. Nella Pasqua si celebra la liberazione dal peccato, la redenzione avvenuta, la fede nella vita eterna e addirittura nella resurrezione della carne.

Il Natale è più domestico, se così si può dire. Non perché l’incarnazione di un dio sia cosa di tutti i giorni, ma è già più pagana, quindi più “naturale”. E anche il periodo in cui cade ha radici pagane: la grande festa dei Saturnali, svolta cruciale nel ciclo dell’anno, al passaggio tra il silenzio invernale e i primi barlumi del risveglio primaverile. (Qui si vede il genio della chiesa primitiva, che a differenza di quella moderna e attuale sapeva innestare i propri contenuti nella tradizione del mondo.) Insomma, il Natale sembra più a misura d’uomo: l’idea stessa dell’incarnazione suggerisce una fiducia nella realtà che nessun’altra religione propone con tanta forza. Dio entra nel mondo, si incista nella sua storia, ne condivide le miserie e le bellezze, lo santifica anche per chi non crede. Lo salva. Ma da che cosa? Da noi stessi? Dalla natura? Dal peccato? Ma che peccato ha mai compiuto il camoscietto appena nato, ancora parzialmente avvolto nella placenta, cui i corvi si precipitano a strappare gli occhi semichiusi, per loro una ghiottoneria come per noi le patatine fritte, sotto lo sguardo sgomento della madre? O qual è il peccato dei vermi che vengono progressivamente mangiati vivi da dentro, cibo per gli icneumonidi che si annidano nel loro ventre? O del topo, oggetto delle sevizie dei nostri coccolati gattini? Ricordiamo che accanto allo sbocciare dei fiori e al ruscellare delle acque, che accanto all’assoluta gratuità della bellezza nella cosiddetta “armonia della natura” c’è anche, e forse di più, un’immane sofferenza. Una sofferenza che non può certo essere spiegata dal mito del peccato originale e che nessun supposto “disegno intelligente” può giustificare. Così come nulla può giustificare la sofferenza dell’innocente, sia il bimbo ebreo fatto sbranare vivo dai cani nel campo di concentramento sia la bambina venduta alle voglie del turista occidentale in certi locali di tutto quello che un tempo si chiamava “Terzo Mondo”.
E nemmeno quella della vipera che per paura e per rabbia qualche anno fa uccisi a bastonate in una radura appenninica: non dimenticherò mai la domanda: “Perché?” rivoltami da un occhio in cui in quel momento, per colpa mia, si concentrava tutta la sofferenza dell’universo.

Per essere salvati bisogna sentire il bisogno di salvezza. Secondo me la grandezza del Natale, e quindi dell’incarnazione, non consiste nella redenzione. Questa è compito dell’uomo, è lui che deve salvarsi e deve salvare insieme la natura che a lui si affida con muta domanda. E alla fine del cammino offrirla con se stesso e la sua storia al Signore dell’universo. La grandezza del Natale, e quindi dell’incarnazione, sta piuttosto nella condivisione del male, e della sofferenza che ne consegue, da parte di un innocente che poteva sfangarsela, se mi si passa l’espressione.
Il grande Eduardo De Filippo dice in qualche sua commedia: Se siamo tutti nella stessa barca io vado a nuoto. Ecco, Gesù nella stalla (e poi sulla croce) ci dice esattamente il contrario di questa cinica saggezza. Gesù entra nella nostra barca alla deriva e non la salva dalle acque in tempesta ma è accanto a noi per raddrizzarla. In questo sta la redenzione divina, ben più potente di quella umana: nel farci sentire incompiuti e quindi bisognosi di compiutezza.
Qui sta la grande speranza che il Natale inaugura: non più solo una promessa o un patto di protezione in cambio di fedeltà (che, se fosse possibile dirlo, suona un po’ mafioso) ma una quotidiana partecipazione alla nostra finitudine creaturale, un abbracciarsi tra fratelli al cospetto di quel grande mistero che siamo soliti chiamare Dio. Un mistero che proprio Gesù ci ha per sempre dischiuso chiamandolo Abbà, Padre. Grazie a quel bambino nella stalla abbiamo imparato su di noi e su Dio verità altrimenti indeducibili. E in quell’uomo che ha voluto essere nostro fratello abbiamo un riferimento irraggiungibile per il nostro vivere nel mondo con gli altri, uomini e natura. Per questo ogni anno diventiamo inquieti nell’attesa del miracolo che ci rende consapevoli della nostra incompiutezza e della possibilità di riscatto ricevuta per grazia: inquieti e timorosi, ansiosi che la speranza non sia vana, che la stella torni a brillare sul nostro incerto cammino.
Concludo con una delle più belle poesie del Novecento, una poesia di Rebora, perché mi sembra esprimere mirabilmente quello che è il nostro Natale oggi, disilluso e tuttavia ancora capace di speranza.

Dall’immagine tesa
Dall’immagine tesa
Vigilo l’istante
Con imminenza di attesa –
E non aspetto nessuno:
Nell’ombra accesa
Spio il campanello
Che impercettibile spande
Un polline di suono –
E non aspetto nessuno:
Fra quattro mura
Stupefatte di spazio
Più che un deserto
Non aspetto nessuno:
Ma deve venire,
Verrà, se resisto
A sbocciare non visto,
Verrà d’improvviso,
Quando meno l’avverto:
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro,
Verrà come ristoro
Delle mie e sue pene,
Verrà, forse già viene
Il suo bisbiglio.

Peregrinus