QUARESIMA

Quand’ero piccolo la Quaresima era un periodo penitenziale al seguito del grande ciclo delle feste di Natale che per me, in una inconsapevole mescolanza di sacro e profano, trovava la sua vera conclusione col Martedì Grasso. Poi, ex abrupto, veniva il Mercoledì delle Ceneri, col prete che ti cospargeva il capo con un pizzico di cenere benedetta, richiamo al nostro destino di ritorno alla polvere. Durante la Quaresima si praticavano astinenze e digiuni parziali al venerdì, si facevano fioretti (erano buoni propositi da mantenere per un certo lasso di tempo, nella speranza che diventassero abitudini. Ricordo che ne facevo anche di truffaldini, tipo: “Prometto che non picchio più Saccomanni”, un compagno che mi stava antipatico), si recitavano con maggior fervore le preghiere (come se quella fosse una pratica di penitenza!), si meditava sulla passione e morte di Gesù “morto per i nostri peccati”.  Ricordo anche che già allora non capivo perché Dio, per perdonare me, dovesse sacrificare suo figlio, mi sembrava un comportamento crudele e vendicativo, simile più a quello di Saturno che a quello del papà del figliol prodigo.

Col tempo compresi che quella era solo una delle tante incongruenze di una dottrina che, stratificatasi nei secoli, cercava di tenere insieme concetti e teorie storicamente condizionati e contraddittori. E che oggi possiamo solo interpretare i dogmi e le cosiddette “verità” di questo insegnamento secolare come grandi metafore della condizione umana e allusioni al Mistero di Dio.

Oggi i digiuni si praticano o per autentica povertà (ma allora si chiamano “inedia”, e si muore) o per eccesso di cibo (ma allora si chiamano eufemisticamente “diete”); i buoni propositi si fanno a Capodanno e non durano fino all’Epifania; le preghiere, per la maggior parte anche di coloro che si dichiarano cattolici, si recitano ai funerali e ai matrimoni, quando va bene qualche salmo, un Pater noster la sera…

Eppure la Quaresima ha ancora molto da dirci. E’ un richiamo all’esperienza del limite, quindi alla finitezza, all’umiltà, all’arte del contenimento di sé. La cenere ne è l’espressione concreta e come tutte le altre pratiche di un tempo evidenzia la nostra creaturalità o la nostra dipendenza, se non altro reciproca: siamo animali razionali e bisognosi l’uno dell’altro; e se ce lo dimentichiamo, se pensiamo di poter essere autonomi e ci chiudiamo nella nostra presunta autosufficienza, non riusciamo più a incontrare gli altri e nemmeno le cose: tutto diventa uno specchio che ci rimanda la nostra immagine.

Ma il senso del limite ci rammenta tante altre cose.

Pensiamo all’economia, che sta distruggendo il nostro mondo col dogma della crescita continua. Se riflettiamo sul serio su questi temi, sulle conseguenze sociali e ambientali del capitalismo senza limiti (le abbiamo sotto gli occhi ogni giorno) allora dobbiamo anche trarne le conseguenze politiche, se vogliamo essere minimamente coerenti. Ma siamo sicuri che tutto ciò si accordi poi non dico con la prassi del Vaticano ma semplicemente con le nostre scelte partitiche al momento del voto? Siamo sicuri che certi governi e certe forze politiche si possano conciliare con lo spirito della Quaresima?

Il limite va posto anche al nostro rapporto con la verità. La verità è come la manna nel deserto: la puoi mangiare ma non ne sei padrone. Pensiamo invece alla pretesa che il cattolicesimo istituzionale ha di possedere la Verità. Sì al dialogo con tutti, per carità, lo ha detto anche il Vaticano II, ma poi, sotto sotto, e anche sopra, i pastori troppo spesso si ritengono i citofoni di Dio. Ma se ho la certezza di avere Dio dalla mia, se sono convinto del valore unico del cristianesimo, che senso ha fingere di dialogare con chi, magari, proviene da un’ altra tradizione e venera altri dei? E infatti l’ecumenismo è fermo da anni, e non si riesce a far diventare senso comune l’idea di una verità plurale. Anzi, si condannano i teologi che si aprono al confronto interreligioso, che magari interpretano la dottrina della Trinità non in chiave sostanzialistica o personalistica  ma come espressione di modalità diverse di esperire Dio nella nostra vita.

Questo complesso di superiorità vale anche nel rapporto col mondo secolare. Dov’è il senso del limite nella rivendicazione di “verità non negoziabili”?  E quante son state, nella storia, le “verità non negoziabili” che la Chiesa, le religioni in genere, han poi dovuto smentire?  Con questo non voglio dire che non si debbano avere princìpi saldi e che non si debba cercare di affermarli anche nella società in cui viviamo, non solo nel silenzio della nostra cameretta. Penso soltanto che quando si parla di valori e di morale non siamo mai sul terreno dell’universale (la famosa “legge di natura”!) ma in quello della “biografia”, cioè dell’esperienza personale. Già Pascal diceva “Verità di qua dei Pirenei, errore di là.” E infatti lanciò la scommessa della fede… Ma allora, per di più in un mondo globale, i nostri princìpi debbono essere sottoposti a procedure universalmente accettate, cioè alla discussione pubblica e alla mediazione con chi professa con altrettanta profonda convinzione altri princìpi. Con questo non dico che tutti i princìpi siano egualmente validi; penso però che tutte le nostre affermazioni, anche quelle di valore, abbiano un’origine sociale e culturale. Forse la Quaresima è anche un invito a riconsiderare il tanto deprecato relativismo contemporaneo, a prender coscienza della storicità e della pluralità culturale e che la verità dei valori non è razionalmente o sperimentalmente verificabile.

Son tanti i richiami al limite che la Quaresima ci propone. Ne ho accennati solo alcuni. Vorrei concludere ricordando che il limite è insieme confine e soglia. La Quaresima ci indica il confine; la fede accenna alla soglia, ci incoraggia a oltrepassarla per testimoniare col nostro modo di vivere e senza imposizioni per nessuno ciò che, oltre quella soglia, intravediamo, “come in uno specchio”, del mistero della divinità.

Peregrinus