Ancora Natale!

Di Daniela B. – Il Natale si va facendo sempre più parola vuota di senso. Se ne è perso, con l’etimologia, il suo significato di nascita e, più ancora, quale nascita si vada celebrando. La carica pervasiva dei Babbo Natale sfonda irruente le porte delle case, si fa immaginario collettivo al punto che alla domanda fatta a scuola su chi nasca a Natale, la risposta immediata è stata: Babbo Natale […].

Di Daniela B. – Il Natale si va facendo sempre più parola vuota di senso. Se ne è perso, con l’etimologia, il suo significato di nascita e, più ancora, quale nascita si vada celebrando. La carica pervasiva dei Babbo Natale sfonda irruente le porte delle case, si fa immaginario collettivo al punto che alla domanda fatta a scuola su chi nasca a Natale, la risposta immediata è stata: Babbo Natale!

La tentazione di abbandonare si fa forte. Sull’onda di un nuovo paganesimo mercificante, a difesa di una laicità vuota, spariscono i presepi e quel bambinello che dovrebbe esserne il centro.  Eppure avverto forte non tanto la nostalgia d’un tempo passato, piuttosto l’urgenza di ritrovare un posto per quel bambino, figlio di un Dio che vuol farsi uomo. Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto nell’alloggio” (Lc. 2, 7). Non c’era posto per loro. Poche parole a concludere l’evento, narrato con una naturalezza che sconcerta. Maria fascia il bambino e lo mette sulla paglia. Non si lamenta, non protesta per non avere trovato un posto migliore. Quel bambino, che lei sapeva essere il figlio di Dio, nasce comunque, anche in una stalla. Come i tanti bambini poveri del mondo, che vedono la luce tra la polvere, partoriti da madri che troppo spesso rischiano la vita per dare loro la vita. Da qui il primo spunto: non basta eliminare il presepio dalle nostre esistenze, non è sufficiente chiudere le porte delle nostre case: quel bambino nasce lo stesso, è nato per ognuno di noi. Un bambino che certo possiamo ignorare, consapevoli tuttavia di smarrire per sempre il significato del Natale. Recuperarne il senso si fa invece occasione per indagare l’essenza di quel bimbo figlio di Dio e più ancora del suo rapporto con noi.

Nel suo farsi bambino, Gesù si affida alle cure di una madre ancora stupita, che lo osserva e ascolta in silenzio quanto si dice di lui. Come ogni bambino, Gesù  ha bisogno di essere curato e protetto. Dunque la prima relazione con lui si fa relazione di cura e attenzione. E’ nel prendersi cura che ci si conosce e si stabiliscono legami, l’indifferenza impedisce la conoscenza e ogni umana sim-patia. Guardare al bambino di Betlemme si fa allora richiamo forte a sollevare lo sguardo, ad ascoltare, a prendersi cura. Prima ancora, guardarsi dentro e ascoltarsi, nel silenzio ritrovare un cuore, il tuo cuore, che è fatto per amare, che ha bisogno d’amare come di essere amato.

“Andiamo dunque verso Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere” (Lc. 2, 15b), dicono i pastori all’annuncio dell’angelo. Curiosità? Abbiamo perso anche quella! Non mancano angeli che ancora annunciano il bene, eppure l’assenza di curiosità impedisce il cammino, la voglia di mettersi in moto. Sordo alle domande di senso che la vita stessa gli pone, l’uomo trascorre il suo tempo in un’inerzia di fondo, mal celata dalla frenesia di corse affannate. I pastori hanno alzato lo sguardo, hanno visto la luce e l’hanno seguita. Hanno visto il bambino e se ne sono tornati pieni di gioia. Perché? Che cosa hanno ricevuto da lui? Null’altro che la gioia di un incontro d’amore, capace di dare senso alla vita. Nella povertà delle nostre esistenze, abbiamo davvero bisogno di un incontro capace di regalare dinamiche nuove e nuovi orizzonti. Non sono i grandi incontri che ci cambiano, piuttosto quelli veri, vissuti nella semplicità di pochi gesti. Nessuna conversione improvvisa, invece la lunga pazienza dell’attesa. Quel bambino nato a Betlemme resterà 30 anni a Nazareth, quasi a dire che l’annuncio ha bisogno di tempo. Abbiamo perso anche la dinamica dell’attesa. Tutto ha da consumarsi nella dimensione dell’attimo, perché non siamo più capaci d’attesa e forse neppure di desiderio. L’attesa soltanto aumenta il desiderio, più ancora si fa spazio per una valutazione profonda di quanto attendiamo. Quel bambino a Betlemme illuminò la notte di uomini e donne, poveri, semplici, tuttavia capaci di speranza, speranza ora dissolta nelle incrollabili certezze del nostro tempo e insieme nelle sue precarietà. Così il credente pare adagiato in una sorta di tranquillizzante assuefazione, chi non crede sembra avere abbandonato gusto della ricerca e desiderio d’incontro. E il Natale scivola via, come le bollicine dello champagne, lasciando insoddisfazione e delusione, in mano un pugno di mosche, nel cuore il freddo di sempre. Eppure, come quella volta a Betlemme, quel bambino nasce ancora oggi lo stesso, ci domanda cura e attenzione, ci dona il suo amore, un amore che interroga l’uomo che accetti di mettersi in gioco. Non c’era posto per loro. Nel terzo millennio non più soltanto semplice constatazione, ma profezia che ancora risuona, risuona anche per me! Fare posto a Dio! Non più magia di una notte ossannante di canti, ma impegno che chiede di venir rinnovato. Gioia profonda di un incontro che cambia, abbattendo le tue certezze, mettendoti in crisi. Un incontro che ti rimette in cammino, sulla strada non facile di una verità che sconcerta. Perché quel bambino, da quella notte lontana, è Dio che cammina con te.

Daniela B.

Natale

Di Peregrinus – Per il vero credente, quello tosto, la grande festa è la Pasqua di resurrezione. Si innesta nelle radici ebraiche del Nazareno, è contraria a ogni bennata ragionevolezza, esige il credo quia absurdum. Costò a Paolo gli sberleffi degli ateniesi e oggi, prova sicura della decadenza dei tempi […].

Di Peregrinus – Per il vero credente, quello tosto, la grande festa è la Pasqua di resurrezione. Si innesta nelle radici ebraiche del Nazareno, è contraria a ogni bennata ragionevolezza, esige il credo quia absurdum. Costò a Paolo gli sberleffi degli ateniesi e oggi, prova sicura della decadenza dei tempi, gli costerebbe quelli di Odifreddi o di Maurizio Ferraris. Nella Pasqua si celebra la liberazione dal peccato, la redenzione avvenuta, la fede nella vita eterna e addirittura nella resurrezione della carne.

Il Natale è più domestico, se così si può dire. Non perché l’incarnazione di un dio sia cosa di tutti i giorni, ma è già più pagana, quindi più “naturale”. E anche il periodo in cui cade ha radici pagane: la grande festa dei Saturnali, svolta cruciale nel ciclo dell’anno, al passaggio tra il silenzio invernale e i primi barlumi del risveglio primaverile. (Qui si vede il genio della chiesa primitiva, che a differenza di quella moderna e attuale sapeva innestare i propri contenuti nella tradizione del mondo.) Insomma, il Natale sembra più a misura d’uomo: l’idea stessa dell’incarnazione suggerisce una fiducia nella realtà che nessun’altra religione propone con tanta forza. Dio entra nel mondo, si incista nella sua storia, ne condivide le miserie e le bellezze, lo santifica anche per chi non crede. Lo salva. Ma da che cosa? Da noi stessi? Dalla natura? Dal peccato? Ma che peccato ha mai compiuto il camoscietto appena nato, ancora parzialmente avvolto nella placenta, cui i corvi si precipitano a strappare gli occhi semichiusi, per loro una ghiottoneria come per noi le patatine fritte, sotto lo sguardo sgomento della madre? O qual è il peccato dei vermi che vengono progressivamente mangiati vivi da dentro, cibo per gli icneumonidi che si annidano nel loro ventre? O del topo, oggetto delle sevizie dei nostri coccolati gattini? Ricordiamo che accanto allo sbocciare dei fiori e al ruscellare delle acque, che accanto all’assoluta gratuità della bellezza nella cosiddetta “armonia della natura” c’è anche, e forse di più, un’immane sofferenza. Una sofferenza che non può certo essere spiegata dal mito del peccato originale e che nessun supposto “disegno intelligente” può giustificare. Così come nulla può giustificare la sofferenza dell’innocente, sia il bimbo ebreo fatto sbranare vivo dai cani nel campo di concentramento sia la bambina venduta alle voglie del turista occidentale in certi locali di tutto quello che un tempo si chiamava “Terzo Mondo”.
E nemmeno quella della vipera che per paura e per rabbia qualche anno fa uccisi a bastonate in una radura appenninica: non dimenticherò mai la domanda: “Perché?” rivoltami da un occhio in cui in quel momento, per colpa mia, si concentrava tutta la sofferenza dell’universo.

Per essere salvati bisogna sentire il bisogno di salvezza. Secondo me la grandezza del Natale, e quindi dell’incarnazione, non consiste nella redenzione. Questa è compito dell’uomo, è lui che deve salvarsi e deve salvare insieme la natura che a lui si affida con muta domanda. E alla fine del cammino offrirla con se stesso e la sua storia al Signore dell’universo. La grandezza del Natale, e quindi dell’incarnazione, sta piuttosto nella condivisione del male, e della sofferenza che ne consegue, da parte di un innocente che poteva sfangarsela, se mi si passa l’espressione.
Il grande Eduardo De Filippo dice in qualche sua commedia: Se siamo tutti nella stessa barca io vado a nuoto. Ecco, Gesù nella stalla (e poi sulla croce) ci dice esattamente il contrario di questa cinica saggezza. Gesù entra nella nostra barca alla deriva e non la salva dalle acque in tempesta ma è accanto a noi per raddrizzarla. In questo sta la redenzione divina, ben più potente di quella umana: nel farci sentire incompiuti e quindi bisognosi di compiutezza.
Qui sta la grande speranza che il Natale inaugura: non più solo una promessa o un patto di protezione in cambio di fedeltà (che, se fosse possibile dirlo, suona un po’ mafioso) ma una quotidiana partecipazione alla nostra finitudine creaturale, un abbracciarsi tra fratelli al cospetto di quel grande mistero che siamo soliti chiamare Dio. Un mistero che proprio Gesù ci ha per sempre dischiuso chiamandolo Abbà, Padre. Grazie a quel bambino nella stalla abbiamo imparato su di noi e su Dio verità altrimenti indeducibili. E in quell’uomo che ha voluto essere nostro fratello abbiamo un riferimento irraggiungibile per il nostro vivere nel mondo con gli altri, uomini e natura. Per questo ogni anno diventiamo inquieti nell’attesa del miracolo che ci rende consapevoli della nostra incompiutezza e della possibilità di riscatto ricevuta per grazia: inquieti e timorosi, ansiosi che la speranza non sia vana, che la stella torni a brillare sul nostro incerto cammino.
Concludo con una delle più belle poesie del Novecento, una poesia di Rebora, perché mi sembra esprimere mirabilmente quello che è il nostro Natale oggi, disilluso e tuttavia ancora capace di speranza.

Dall’immagine tesa
Dall’immagine tesa
Vigilo l’istante
Con imminenza di attesa –
E non aspetto nessuno:
Nell’ombra accesa
Spio il campanello
Che impercettibile spande
Un polline di suono –
E non aspetto nessuno:
Fra quattro mura
Stupefatte di spazio
Più che un deserto
Non aspetto nessuno:
Ma deve venire,
Verrà, se resisto
A sbocciare non visto,
Verrà d’improvviso,
Quando meno l’avverto:
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro,
Verrà come ristoro
Delle mie e sue pene,
Verrà, forse già viene
Il suo bisbiglio.

Peregrinus

Relativismo?

Di Peregrinus – La Torah comincia con la parola bereshìt, In principio. La prima lettera è perciò beth, chiusa a destra e aperta a sinistra. Ma poiché gli ebrei leggono da destra verso sinistra, ciò significa che si può procedere solo dalla creazione in poi […].

Di Peregrinus – La Torah comincia con la parola bereshìt, In principio. La prima lettera è perciò beth, chiusa a destra  e aperta a sinistra. Ma poiché gli ebrei leggono da destra verso sinistra, ciò significa che si può procedere solo dalla creazione in poi. (E infatti i  venerandi maestri, nella loro concretezza antimetafisica, dicevano: “Non hai diritto di indagare se non dal giorno in cui il mondo è stato creato in poi”.)

Però la lettera aleph, che è la prima lettera dell’alfabeto ebraico, non fu affatto contenta che la Torah cominciasse senza di lei, e andò a lamentarsi con Dio: “Perché non sono stata scelta io per cominciare il racconto della creazione?”

Dio, nella Sua infinita pazienza, le disse: “Sta tranquilla! Quando mi rivelerò all’uomo comincerò proprio con te.”

E infatti, sul  monte Sinai, Dio comincia: ”Io sono il Signore Dio tuo”, e siccome la parola io in ebraico è anochí, cioè comincia con l’aleph, quest’ultima fu finalmente soddisfatta.

Questo midrash è raccontato dal grande pensatore giudeo-cristiano e biblista Paolo De Benedetti.  Un altro grande studioso di ebraismo e di mistica ebraica, Gershom Scholem, ci ricorda inoltre che l’aleph non ha un suono ben definito: in realtà è una sorta di predisposizione della glottide a parlare. Per questo gli antichi qabbalisti dicevano che la rivelazione di Dio all’uomo comincia e finisce con l’aleph di anochí : tutto il resto è nostra interpretazione.

Per questo De Benedetti dice che c’è sempre almeno un settantunesimo senso del testo sacro, oltre ai settanta attribuiti dalla tradizione. In realtà, è un modo per dire che non c’è limite nel trovare sensi: “Settanta vuol dire tutti, settantuno vuol dire tutti più qualcosa”. I sensi sono tanti quanti sono gli uomini. Ogni vita che si spegne o che non nasce è un senso in meno del mondo, e ne siamo tutti impoveriti. Perciò la vita è in sé santa e ogni uomo insostituibile. Ogni uomo ha una sua sensibilità, una sua esperienza, una sua “enciclopedia” interiore, soprattutto una sua vocazione individuale, come individuale è il suo nome, e forse tutte queste cose insieme sono la sua “anima”, e con questa egli interpreta la realtà in cui vive e che in base a questa interpretazione costruisce.

Oggi si usa bollare tutto ciò di “relativismo”. Non sono d’accordo, e penso che l’accusa sia il riflesso di una volontà di egemonia dottrinaria. Il relativismo nega a priori l’esistenza della verità; la molteplicità delle interpretazioni, e il loro conflitto, invece, non negano affatto, di principio, l’esistenza della verità: dicono soltanto che essa si dispiega nel pluralismo ermeneutico. Ogni interpretazione è solo parziale e la verità non è sedentaria, è un limite che si sposta a ogni nostro passo avanti nella sua conoscenza o intuizione (secondo un movimento asintotico, cioè mai coincidente, si potrebbe dire in linguaggio matematico). Quindi a ogni uomo è concesso  raggiungerne solo un frammento. La verità è nomade, in esilio, esodale, se così si può dire. E’ un obiettivo da perseguire, non un principio codificato che sta alle mie spalle. La verità è unica, ma si può nominare in modi diversi: è plurale. Come diceva Kafka: “E’ difficile parlare della verità perché, sebbene ce ne sia una sola, è vivente, e ha quindi un volto che cambia con la vita.”

Forse sarebbe meno equivoco parlare piuttosto di “prospettivismo”. Ne Le città invisibili Italo Calvino racconta della città di Despina, che si può raggiungere dal mare, per nave, o dal deserto, per cammello. E naturalmente “la città si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare.” Quando la vede “spuntare all’orizzonte dell’altipiano” il cammelliere “sa che è una città ma la pensa come un bastimento che lo porti via dal deserto”, mentre il marinaio “nella foschia della costa distingue la forma d’una gobba di cammello (…) sa che è una città ma la pensa come un cammello (…) che lo porta via dal deserto del mare.” Ecco, io penso che la verità sia come la città di Despina: esiste realmente, ma muta a seconda della prospettiva da cui la osservo.

Dice il saggio e tollerante Lessing: “Se Dio tenesse nella Sua mano destra tutta la verità e nella mano sinistra il solo tendere verso la verità, seppure con la condizione di dover andare eternamente smarrito, e mi dicesse: “Scegli”, io mi precipiterei umilmente alla Sua sinistra e direi: “Concedimi questa, o Padre: la verità pura è soltanto per Te.”

Peregrinus