Pasqua

“Ma se non vi è resurrezione dei morti, neppure Cristo è stato resuscitato; e se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la nostra fede.” (1 Cor., 15, 13-14). Non è la sola affermazione di Paolo che lascia perplesso un diversamente credente come me… di Peregrinus

“Ma se non vi è resurrezione dei morti, neppure Cristo è stato resuscitato; e se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la nostra fede.” (1 Cor., 15, 13-14).   Non è la sola affermazione di Paolo che lascia perplesso un diversamente credente come me.  Anche poco più avanti, nella stessa lettera (42-44), c’è una contrapposizione fra corpo naturale (o, secondo altre versioni, animale) e corpo spirituale che sembrerebbe di stampo platonico là dove il corpo naturale viene definito “corruttibile, ignobile, debole” in confronto a quello spirituale “incorruttibile, glorioso, potente”. Contrapposizione che è difficile condividere nel suo senso profondo (la lettera è ovvia),  sia per le conseguenze ideologiche che ha avuto nella storia della cristianesimo, con tutto il disprezzo per la corporeità e spiritualismi moralistici al seguito, sia perché, se resurrezione può esserci, la si vorrebbe davvero anche dell’ ignobile carne: noi siamo il nostro corpo, Gesù di Nazareth ha sofferto col nostro corpo, noi amiamo col nostro corpo e col nostro corpo percepiamo. Senza di esso anche il Sé più segreto di ognuno di noi, la coscienza, lo spirito, l’anima o comunque si voglia chiamare l’etereo prodotto dei circuiti neuronali, non ci sarebbe. Ma speculare su tutto ciò è peccato, come dicevano gli antichi maestri (“Meglio non essere nato che indagare ciò che sta sopra, ciò che sta sotto, ciò che sta prima, ciò che sta dopo”), e Paolo forse lo faceva in polemica coi Sadducei, che negavano la resurrezione dei corpi, o con qualche fedele di Corinto vicino ai Sadducei (si era più pluralisti, allora, e si litigava eccome nella chiesa delle origini).

Resta però il collegamento fra la fede e la resurrezione di Gesù di Nazareth, dagli evangelisti glorificato ormai come Messia. E’ davvero così centrale per seguire e amare Gesù, così imprescindibile, credere anche nella sua resurrezione? Oggi almeno, non è più importante sentirlo vicino, sia pure in modo misterioso e intermittente, come sentiamo vicini, spesso, i nostri cari defunti? Riconoscerlo vivo in quegli ultimi da lui tanto amati? Interpretare i segni del tempo alla luce della sua vita?

Non penso che occorra il trionfalismo della tradizione pasquale per capire che quel carpentiere di Nazareth, un nato di donna, un figlio dell’uomo, appunto, aveva una relazione speciale col Mistero divino. E  tradusse questa relazione speciale nel combattere le false immagini della religione (non a caso fu condannato dai sacerdoti) e nel parteciparsi a tutti i bisognosi, in particolare agli ultimi, i privi di diritti, come troppi ancor oggi, e sempre, fra noi. E ci donò, senza imporlo ma morendo per esso, un modello di vita che innalza a livello divino chi vuole (e riesce a: è qui il peccato) seguirlo. Quella relazione speciale marchiò a fuoco i suoi discepoli e segna tuttora chi si accosta al Secondo Testamento.

Allora come possiamo leggere oggi l’evento pasquale? Solo come una metafora del rinnovamento? Un invito a rinascere, a liberarsi dal giogo del passato? Un’ affermazione comunque della priorità della vita sulla morte?  Certo nella Pasqua c’è tutto questo.

Ma io credo ci sia anche dell’altro.

Innanzi tutto la Pasqua è il momento in cui fede speranza e carità coincidono. Dopo lo smacco della morte di Gesù nasce la fede nei discepoli e con essa la speranza che la morte non annichili tutto; con la fede e la speranza lo slancio missionario e oblativo: non si ritirano nel deserto, non si separano dal mondo, peregrinano instancabili come il Maestro e vivono il loro tempo fino in fondo ma senza farsene complici. Mi pare un ammaestramento grandissimo.

La Pasqua è anche  l’occasione di riconsiderarsi davanti alla prospettiva della morte, che ci riassume e ci definisce: ma proprio per questo, nell’accettazione della finitezza, acquisiamo esistenzialmente la libertà di aprirci al futuro e al dischiudersi delle possibilità.

Ma soprattutto la Pasqua è la cifra del rapporto fra vita e morte. Nella festa pasquale così come generalmente proposta avverto una certa indiscrezione, un’esuberanza che ottunde il confronto col nocciolo duro delle nostre vite, la morte appunto. Potrei dire che nella celebrazione tradizionale della Pasqua vedo poca serenità conquistata e asciutta e troppa esaltazione glorificante e sontuosa, parlando in termini di storia culturale: carenza di stoicismo ed eccesso di barocchismo. Si rischia così di velare la fatica di vivere, la paziente conquista, giorno per giorno, di uno spazio di vita da sottrarre alla morte, a uno dei tanti tipi di morte che ci assediano. La resurrezione dovrebbe insegnarci pazienza e tenacia. Quella pazienza e tenacia che un grande poeta morto da poco, Elio Pagliarani, celebrava: “Quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d’uomo, in storia che resiste / solo vivo scarnendosi al suo tempo.”

Peregrinus